FESTIVAL

Unendo le più recenti acquisizioni critiche della scienza e dell’arte contemporanea in ambito antropologico, dell’antropologia contemporanea, della scienza e della tecnica del linguaggio cinematografico, i docufilm di taglio antropologico costituiscono un significativo passo in avanti su ambedue i piani e costituiscono un ampliamento della nostra consapevolezza critica.

Si pensi, ad esempio, al docufilm sulla figura e l’opera di Luigi di Gianni, recentemente scomparso, realizzato con grande rigore ed efficacia da Domenico Sabino.

Ben venga, dunque, un Festival del docufilm antropologico, che l’infaticabile Vincenzo Diego e l’associazione ASAJ organizzano nella bella e accogliente Cersosimo.

LUIGI MARIA LOMBARDI SATRIANI

Come nasce l'idea?

Luigi Di Gianni girò a Cersosimo nel 1959 Frana in Lucania, che mostra una famiglia di contadini che deve abbandonare il paese e la casa per l’incubo delle frane.

Documentario in 35mm, colore.

Durata: 15:00. Data: 1959. Luogo: Cersosimo. Autore: Luigi Di Gianni

Fotografia: Giuseppe De Mitri. Montaggio: Renato May. Musica: Daniele Paris. Testo: Luigi Di Gianni. Produzione: SEDI.

Coppa ANICA al Festival dei Popoli di Firenze.

Proprio con Frana in Lucania (1959) e Pericolo a Valsinni (1959) il regista ci dà più l’idea dell’inospitalità del paesaggio, dove anche la natura sembra abbattersi sui destini degli uomini. Non a caso l’inquadratura del bambino che piange in braccio ad una donna, mentre fuori infuria il temporale, può ricordare Sunrise (1927) di Friedrich Wilhelm Murnau, considerato il debito dichiarato del regista nei confronti del cinema espressionista.

Uomini e no.

Lo sguardo cinematografico di Luigi Di Gianni*

di Luigi M. Lombardi Satriani

     I simboli, sosteneva Ernesto de Martino, sono semi di cultura; noi interiorizziamo continuamente simboli ese non comprendessimo il loro linguaggio rischieremmo di non intendere o di sottovalutare in maniera macroscopica buona parte della realtà.Lo stesso de Martino diceva che anche se il Duomo di Colonia è fatto di pietre non riusciremmo a comprenderne il significato se lo analizzassimo soltanto con i criteri della mineralogia; né potremmo comprendere la commozione, la sofferenza, la tensione al trascendimento della datità presenti nei comportamenti devozionali se ci limitassimo a descriverli con la freddezza di un entomologo che analizzi la vita degli insetti. La prospettiva antropologica sollecita ad assumere gli altri come soggetti a pieno titolo a noi uguali in dignità, e ad analizzare le modalità da loro poste in essere tenendo conto anche della funzione culturale che tali modalità svolgono in quella determinata società. Non è compito dell’antropologo in quanto tale identificarsi acriticamente con la realtà che osserva o farne oggetto di condanna salendo su unimprobabile scranno di un ipotetico tribunale. Né esaltazione, né condanna, dunque, ma tentativo di comprendere le ragioni interne dei fenomeni se ne vogliamo intendere la profonda verità culturale.

     E allora, anche paradigmi di umanità che possono apparire lontani dalla nostra esperienza quotidiana, hanno interne ragioni anche per quei comportamenti che ci possono apparire radicalmente estranei.

     Comprendere gli altri, farci “contaminare” dalla loro realtà, è sempre un’esperienza di arricchimento particolarmente utile se non intendiamo precipitare in quella “deborizzazione” della società italiana che tanti danni ha provocato, effetto e ulteriore concausa di radicale attuazione della soggettività critica. Ovviamente, assumo il nome “Debora” come emblema: le telenovelas hanno potenziato a dismisura una visione edulcorata della realtà, che oggettivamente produce una manipolazione dei sentimenti; questi, anche quando soggettivamente avvertiti come autentici, di fatto vengono banalizzati, privati di ogni profondità esistenziale, miscelati e restituiti come paccottiglia da fotoromanzo. Tutto ciò abitua a una dimensione di torpore individuale, al non domandarsi mai il perché delle cose, delle azioni; si diventa sempre più oggetto destinatari di messaggi, il che produce effetti perversi su tutti i piani, da quello politico a quello più generale della consapevolezza critica in ogni settore. In questa direzione va individuata l’utilità che una prospettiva antropologica può offrire, ponendosi accanto ad altre prospettive; in assenza di consapevolezza critica si è soltanto oggetto di discorsi, oggetto di imperativi, siano essi imperativi di consumo -slogan pubblicitari o altro-, siano essi imperativi di altro ordine.

     In questo quadro rivela tutta la sua utilità il documentarismo etnografico che si sviluppa nel nostro paese a partire dal secondo dopoguerra. Esso testimonia l’affermarsi di un rapporto con la realtà atto a coglierne i molteplici tratti e le non meno molteplici suggestioni. È appena il caso di ricordare, a mero titolo esemplificativo, i celebri documentari di Lino Dal Fra, Vittorio De Seta, MicheleGandin e di numerosi altri che presentano, con rigore, aspetti della società italiana lontani da quelli cari all’iconografia ufficiale. Né può essere taciuto l’apporto dato, pure in quegli anni, da fotografi quali Federico Patellani, Franco Pinna, Ando Giraldi, André Martin, Mario Carbone, Calogero Cascio, Enzo Sellerio, Ferdinando Scianna, per non ricordare che alcuni, attenti e intensi osservatori del mondo popolare, quali si sono mostrati successivamente antropologi che hanno dato notevoli contributi etnografici come Annabella Rossi, Francesco Faeta e Lello Mazzacane.

     Facendo specifico riferimento ai documentari di Luigi Di Gianni, sarebbe estremamente utile contestualizzarli nella temperie culturale e politica di quegli anni in cui furono prodotti, a volte con sforzo pionieristico. Così facendo riusciremo a comprendere il contributo conoscitivo che questi documentari hanno in un’Italia in cui sembrava che la cultura dovesse essere costituita solo dalle voci ufficiali. Sarebbe interessante,in questo senso, visionare una selezione de “La settimana Incom”, cioè di quei cinegiornali che per leggedovevano precedere la proiezione di un film. Cinegiornali che si ponevano quali testimonianze di un’Italia che mentre si stava rinnovando fortemente nella struttura governativa, in quella industriale e tecnologica, conservava realtà contadine prevalentemente sconosciute, negate, rimosse o riprese secondo l’ideologia del pittoresco. Queste cose sembravano interessanti solo secondo la logica del “guarda come sono strani”, “guarda come sono divertenti”, in sostanza nell’ottica dell’esploratore bianco che va nella realtà dei selvaggi. Era l’ottica delle barzellette della Settimana Enigmistica in cui il nero parla sempre con la “b”, in cui finisce sempre per cuocere nella pentola l’esploratore, e così via. In questo tipo di atteggiamento si annidava una sostanziale negativizzazione di qualsiasi forma di diversità socio-culturale: l’altro come inferiore, come barbaro.

     I protagonisti del mondo contadino potevano essere considerati assolutamente irrilevanti, collocati di fatto in una marginalità non soltanto geografica, per cui era come se fossero di fatto espulsi dall’umanità, non uomini.

Cu muriu? Nuju; la risposta feroce che veniva pronunciata “normalmente” nel Meridione: se il morto era un contadino ci conferma icasticamente la negata umanità a tanti soggetti ai quali veniva inflitta sistematicamente una invisibilità sociale e culturale.

     In questo contesto Luigi Di Gianni riprende uomini e donne del Sud nella loro dolente umanità, nei segni espliciti della loro quotidianità, nella complessità e, a volte, nella drammaticità dei loro rituali, in sintesi, nella loro fatica di vivere e nella loro ineludibile dignità.

     Chi scrive ha avuto modo di constatare di persona come Di Gianni lavora sul campo -mi riferisco ad esempio ai documentari su Giuseppina Gonnella-, come si dispiegava concretamente la collaborazione con Annabella Rossi, autrice dei testi di suoi numerosissimi documentari, quanto denso di attenzione sia il suo sguardo.

I documentari di Di Gianni hanno contribuito in maniera rilevante al formarsi di un approccio nel Sud radicalmente diverso da quello che lo fissava in un’improbabile stereotipia critica.

E’ un approccio che deve molto al paziente e rigoroso lavoro dei demologi, alla lucidità antropologica di altri studiosi e narratori –si pensi, per tutti, a Ernesto de Martino e a Carlo Levi- ai fotografi e ai documentaristi ai quali ho già accennato a titolo esemplificativo. Tra questi Luigi Di Gianni occupa un posto di particolare rilevanza.

     L’insieme di tale produzione va utilizzato come fonte di conoscenza, senza pensare, d’altro canto, che esso rappresenti oggettivamente la “vera” verità. E’ utile, infatti, reagire al luogo comune secondo la quale l macchina fotografica o da presa poiché essa fissa immagini, documenta in maniera oggettiva, incontrovertibilela realtà, come se per il solo fatto di vederlo e riprenderlo un fenomeno culturale lo si possa cogliere nella suaverità, nella complessità delle sue funzioni. Vedere, in effetti, non è un fatto meccanico. I nostri occhi non costituiscono delle superficie riflettenti, degli specchi nei quali la realtà, passando, resta catturata per essere restituita, poi, in forma oggettiva. Attraverso il vedere, invece, noi compiamo un’opera di selezione, cioè interrompiamo il continuum della realtà, captando e scegliendo alcune cose che mettiamo in relazione. Vedere è un fatto culturale, un fatto che ha una base biologica, ma che comporta una connessione di dati che viene realizzata secondo schemi culturali. E allora anche la fotografia, anche i filmati non sono verità assolute, perché niente di ciò che è detto o visto dall’uomo può essere assunto come verità assoluta. Si tratterà, semmai, diinterpretazioni della realtà. E saranno certo interpretazioni che rifletteranno le concezioni complessive dell’autore di quella fotografia o di quel filmato. Un film di Visconti avrà una poetica, un taglio diverso rispetto a un film di Bergman o di De Seta, come uno scritto, un romanzo di Calvino è diverso da un romanzo di Sciascia, come una fotografia di Cartier Bresson è profondamente diversa da una fotografia di Oliverio Toscani. La macchina da presa, la macchina fotografica, la penna o il computer sono strumenti, sono mezzi attraverso i quali viene detta una realtà attraverso il linguaggio fotografico, filmico, narrativo, saggistico, perché anche la scienza si traduce in parole e narrazioni.

     Quello antropologico, a sua volta, è un livello conoscitivo che interpreta le mutevoli interpretazioni della realtà, pur essendo esso stesso interpretazione. Non potrebbe essere diversamente, perché le gabbie interpretative ognuno inevitabilmente le mette in opera fornendo dati che noi possiamo rileggere introducendo altri tagli, altri criteri interpretativi. Questa la creatività del pensiero critico: prendere delle fonti, riorganizzarle, giungere alla consapevolezza dialettica. Ed è un itinerario che ognuno di noi deve fare per conto proprio, nessuna cosa può essere detta in modo assoluto.

Altrimenti noi saremmo per un sapere ufficiale trasmesso autoritariamente, recepito meccanicamente, come, in effetti, nella scuola molte volte avviene, e saremmo lontani da quel processo di formazione critica indispensabile per l’acquisizione della soggettività.

Non si nasce soggetti, si nasce portatori di un’ineludibile condizione umana a partire dalla quale occorre elaborare un nucleo di valori e prospettive di conferimento di senso, tutti da rispettare, i propri e gli altrui. In questa prospettiva il processo di apprendimento critico è operazione indispensabile anche se faticosa. A tale processo, per quanto riguarda il Sud, l’opera di Luigi Di Gianni fornisce strumenti e dati che non possono essere ignorati o accantonati quasi fossero “curiosità”. Strumenti e dati, ma anche immagini di intensa suggestione.

* Il presente saggio fa parte del volume collattaneo, “Tra magia e realtà”, a cura di Domenico Ferraro, Squilibri, 2001.

LIBERO la rivista del DOCUMENTARIO

A noi resta la sua eredità, un’eredità ricca, capace di prenderci per mano, di farci incamminare nel sentiero della storia umana, fatta di passioni, di preoccupazioni, ma anche di sogni, di occasioni per farci entrare nella storia a pieno titolo, scritta da mani diverse, segnate dalla fatica o meno, ma entrambe capaci di farci arrampicare attraverso pareti, quasi sempre aspre, per raggiungere la cima, dalla quale aprire lo sguardo verso orizzonti di fratellanza, di pace e di progresso.

Dietro la macchina da presa del grande Maestro, emerge la sua grande umanità, l’attenzione, l’amore per uomini e cose. Questo festival ci farà riflettere su quello che eravamo, e su quello che siamo diventati. Nasce così, senza pretese, l’omaggio a un uomo che fu capace di dare un volto ed una voce a uomini e luoghi dimenticati, raccontandone la dignità e l’autenticità attraverso la sua arte. Ad agosto vivremo, almeno questa è l’intenzione, momenti, potremmo dire, quasi intimi, giorni nei quali poter riflettere.

Una riflessione fatta attraverso l’immagine, la parola, i suoni, le testimonianze di una umanità che solo apparentemente non c’è più, ma in realtà più che mai viva, presente, capace di influenzare il nostro presente e senza dubbio il futuro: un futuro che si può costruire solo partendo dalle nostre radici profonde, sapendo leggere e amare intimamente e profondamente quelle nude pietre con le quali sin dall’inizio dei tempi sono servite a costruire la nostra casa, le nostre certezze, quella casa che la natura può cancellare in un attimo, attraverso la pioggia, attraverso la frana, facendoci ritrovare uniti di colpo nella piazza, muti, uomini con altri uomini, dallo sguardo perso, incredulo. Nella piazza, però, gli occhi si incrociano, si incontrano, le persone si parlano, diventano comunità, capaci di progettare assieme il futuro di un luogo, di uno spazio, di un territorio.

Uomini e natura: una sintesi ancestrale, la sintesi della storia dell’uomo, il quale riesce a ritrovarsi e a ritrovare l’umanità che alcuni momenti smarrisce, ma che lo contraddistingue, solo se le pietre messe una su l’altra diventano utili per costruire la casa comune.

L’associazione ASAJ ringrazia “La Cittadella del Sapere” per avere messo a disposizioni le risorse economiche per avviare questa e infinite altre operazioni culturali.

Ing. Antonio Armando Loprete – Sindaco del Comune di Cersosimo

ASAJ Lucania